Intervista a uno dei padri storici della arrampicata libera e sportiva della parte veronese della Val d’Adige.
I titoli fanno il lavoro dei titoli, e qualche volta sono pensati apposta per attirare l’attenzione. Poi però ci deve essere del sugo, della discussione e dell’approfondimento su temi che riguardano tutti noi e che non sono interessanti soltanto certo per il limitato territorio di cui andiamo a parlare.
Anni ’80 e anche un po’ prima: mentre ad Arco Mariacher, Bassi e Manolo preparavano le prime linee di quello che sarebbe diventato l’attuale gigantesco comprensorio a nord del lago, un gruppo di meno famosi ma certamente non meno appassionati e attivi esplorava le pareti a ridosso della bassa parte bassa del lago di Garda, quella che si affaccia sulla Val d’Adige.
Tra i veronesi (ci furono infatti anche i parmigiani) Giuseppe Beppe Vidali né è certamente uno dei personaggi più rappresentativi, insieme a Eugenio Cipriani e Sergio Coltri, almeno tra quelli ancora attivi tutt’oggi, ed è certamente uno dei più profondi conoscitori delle pieghe, rocciose e non, del territorio che guarda dall’alto l’autobrennero. Beppe Vidali è chiodatore, alpinista, artista e autore di tutti i disegni delle ultime guide riguardanti la valle e per mestiere usa le corde per portare a termine restauri importanti che non riguardano il climbing.
Di certo senza incitare alle schiodature o ad altri atti simili, Beppe non ha mai mai fatto mistero di non amare il tipo di sviluppo, di sovrachiodatura, che l’area del Tessari ha subito negli ultimi 10 anni e quindi lo ascolteremo argomentare in quel senso.
Per amor di completezza e per far sentire l’altra campana, abbiamo anche contattato quel gruppo scalatori Valdalpone che di quelle che aperture è artefice e che harichiodato recentemente la via Mamma di Turchi, quella presa l’assalto dai sedicenti Nar, dalla sigla molto triste che ricorda gli anni di piombo e che poteva essere scelta sicuramente meglio.
A nome del gruppo Valdalpone Manuel Leorato ha declinato l’invito, non riconoscendo Pareti come tribunale adatto per mettere sul piatto le loro argomentazioni, secondo noi fraintendendo completamente il nostro ruolo, che è possibilmente quello di mettere sul piatto i diversi punti di vista e lasciare che il lettore si faccia la sua idea. Pazienza, proprio perchè non siamo un tribunale non possiamo costringere nessuno a presentarsi, ma a piè d’intervista pubblicheremo le domande che avevamo rivolto, secondo noi piuttosto equilibrate.
Beppe Vidali interview
Partiamo da lontano, direi all’inizio degli anni ‘80 o mi sbaglio? Le prime esplorazioni in quale parte della Valle furono? E la prima via a Tessari?
Il monte Cimo fu la prima e la più importante struttura rocciosa presa in considerazione già dai
primi anni ’80, con la sua roccia perfetta che non ha eguali in tutta la val d’Adige. La prima via ai
Tessari nacque nel 1999 alle Bastionate, “Danza Celtica” via sebbene chiodata a spits, è di
concezione alpinistica quindi poco ripetuta dalle generazioni di oggi. All’epoca il sito dei Tessari
era ancora vergine, persisteva come documento di arrampicata plaisir il settore Trapezio, aperto da
Eugenio Cipriani con l’ottica “facile è bello” anticipando i tempi. Le vie di Cipriani al Trapezio si
distinguono da quelle di oggi per la parsimonia di protezione, quindi anche se facili inadatte ai
parametri di oggi. Negli anni altre vie si aggiunsero a Danza Celtica, sempre alle Bastionate,
struttura che mi ha sempre intrigato, anche se la qualità della roccia bisogna cercarsela e non è
sempre evidente. Diciamo che il limite tra il sano e lo sfasciume è palpabile, quindi i dubbi venuti
alla luce mi hanno convinto di non andare oltre. Quello che si assiste oggi è il marcato segni dei
tempi che non ha nulla da spartire con i principi di allora.
Quando si può collocare l’inizio delle multipitch interamente a fix in valle? Quando e come l’asse
dell’interesse sulle multipitch si è spostato dal Cimo a Tessari?
L’avvento del trapano ha segnato il vero cambiamento, diciamo verso la metà degli anni ’80, prima
in modo sporadico, la spittatura a mano era necessaria su certi settori di parete ma sempre sostenuta
da chiodi e dadi, le vie di conseguenza erano capolavori di arguzia, con protezioni tradizionali e lo
spit che risolveva il passo chiave. Con l’avvento del trapano le protezioni diventano più sicure ma
mai con passi regalati. Questo concetto dell’obbligatorio, era applicato sia sulle multipich che sui
monotiri di falesia, e questo viene spesso notato ora, da chi frequenta falesie storiche chiodate in
quegli anni che hanno mantenuto lo stile dell’epoca. L’interesse per i Tessari, almeno per me, si è
spostato nel momento in cui le mie capacità arrampicatorie (non sono uno scalatore da 8c) mi hanno
fatto capire che gli spazi liberi per le mie capacità erano esauriti. La mia ultima via aperta nel 1999
“vuoti d’aria” 6c A0 o 7a + ne è stata la prova. Le vie che apro, tutte devono essere ripetibili da me
stesso, con meno tratti possibili in A0 – A 1 altrimenti non ci sarebbe il divertimento. I Tessari,
come altri settori nella valle, tipo le Pale Sommitali, la gola di Ceraino e la Prua sinistra d’Adige
etc. erano vergini, intonse e pronte per nuove aperture.
Tessari due minuti d’accesso contro ‘45 del Cimo, ma ci dev’essere anche qualcos’altro
che fatico a capire quando vedo dei fix che entrano in un bosco. Puoi chiarire il termine dialettale di rumego?
Credo che ci sia qualcosa di malato in tutto ciò, questo fenomeno è stato sicuramente sdoganato da
Grill e soci, che con le loro aperture radicali, in quel di Arco di Trento, hanno dato una svolta
popolare a quello che era un ristagno della arrampicata arcense. Non è detto però che tutto quello
che c’è sotto le piante è bello, e se Grill e soci hanno azzeccato itinerari degni di nota e resi
popolari, non è così per i Tessari e la Roda del Canal. Mi chiedo anch’io cosa spinge i chiodatori
del gruppo Roccia Valdalpone ad accanirsi su settori di bosco verticale o fascie rocciose sospese.
Dire: “noi chiodiamo facile per tutti!” è quanto mai un’affermazione priva di senso, se non è
supportata da una pianificazione, collaborazione, dialogo con le parti e una visione lunga sugli
effetti che provoca tale affermazione. Tutto questo viene proposto all’arrampicatore di primo pelo,
da quello appena uscito dalla sala indoor, dall’allievo del corso CAI, che non ha parametri di
confronto ma gli viene data la sicurezza del risultato. Ecco allora che la parola “rumego” usata in
senso dispregiativo (soprattutto nel vicentino), da noi si usa di più “scaranto o scrozo” si presta bene
nel definire questi tipi di itinerari. Se applicata alle pareti indica settori friabili, vegetati,
ingrovigliati, ma viene usata anche nell’intercalare dialettale: “ravanar sul rumego” significa “ma in
che casino ti sei infilato? ossia per evidenziare una situazione a dir poco evitabile”.
Un corso di alpinismo del CAI dovrebbe insegnare ad andare in montagna, scarpinate comprese:
perchè scegliere serialmente la prima roccia che sbuca dalla pianura padana?
È il segno dei tempi, l’adattamento alla comunità di permette di gestire più allievi con meno fatica,
non dico che bisogna prendere come esempio le scuole di Alpinismo russe, che portavano gli allievi
sul Pamir per avvicinarli alla montagna, ma un minimo di impegno nel guadagnarsi la salita, in un
contesto ambientale giusto e ricco di conoscenze. Purtroppo le scuole del CAI sono le prime ad
usufruire di situazioni del genere e vedono nel futuro l’auspicio di nuovi siti creati appositamente.
Non capiscono che l’allievo ha bisogno di conoscere i propri limiti, ed allenarsi per superarli
renderebbe inutile addomesticare la montagna o alterare ciò che esiste.
Bene o male non sei un local solo come climber e storico apritore di vie ma anche come abitante:
come vive la gente del luogo questa invasione nei weekend?
È strano, sembra che la questione sfiori solo parzialmente, magari spostare una macchina per far
entrare un trattore nella vigna è la massima richiesta ricevuta, ma niente di più. Sembrano tutti
pervasi da un sonno ancestrale, il sonno dei giusti, non scalfiti da questo problema. I veri infastiditi
sono i fruitori della parete che si ritrovano nel pieno del sovrafollamento, mancanza di parcheggi,
fila sulle vie etc. Ma anche qui, visto le caratteristiche popolari del sito, essendo anche l’unico nella
valle e non avendone le capacità di scelta, (mancanza di conoscenza e preparazione) subiscono gli
effetti del fenomeno di massa.
Nell’ormai celebre e celebrato film sulla val d’Adige si parla di programmazione dello sviluppo e
della manutenzione degli iteinerari. C’è all’orizzonte qualcosa del genere?
Ad oggi esiste un’associazione APS Verona che fa capo al King Rock, che si è presa l’onere e
l’onore, non sempre condiviso di richiodare tutti gli itinerari e falesie a loro descrizione. Purtroppo
questa attività di richiodatura, per fortuna solo su falesie, che dovrebbe essere condivisa con gli
apritori e gli storici, se non altro a livello informativo, non viene fatta passando così da azione
altruistica a imposizione su tutti. La LAAC (libera associazione alpinisti chiodatori) ha fatto il
possibile negli anni sul territorio ma essendo priva di soci paganti e moneta sonante si è dovuta
confrontare con dei limiti evidenti. APS Verona invece conta più di 200 soci paganti che nel loro
tornaconto usufruiscono di scintillanti spits inox con tasselli del 12 già posizionati in maniera
ascellare per la gioia di tutti. Sulle multipich il discorso è diverso essendo terreno di avventura sta
nell’apritore intervenire dove è necessario, sulle mie ripetendole spesso ho sott’occhio la situazione
e sempre a mie spese intervengo.
Anche se li sapessi non me li diresti, ma al di là di nomi e cognomi quanta determinazione c’è
secondo te in questo gruppo di schiodatori? E quanta secondo te nel gruppo dei chiodatori (e a
questo punto richiodatori seriali)? Io credo che le schiodature non siano tutte uguali e vadano
giudicate nei singoli contesti; ma quelle di Tessari e di Castellano che impatto stanno avendo sulla
vita verticale in val d’Adige?
C’è una netta differenza tra le schiodature dei Tessari e quelle di Castellano essendo la seconda
chiodata e schiodata da locals. Lo sbaglio è sempre quello, tenere per sé una falesia o condividerla?
Nel momento in cui sul web o tra le comunità girano voci o notizie la falesia diventa pubblica con
tutte le conseguenze del caso, i falchi arrivano subito sulla preda che siano tedeschi assettati di
roccia italica, compilatori di guida pirata o semplicemente curiosi, il gioco si fa duro. Se poi
prendono conferma alcuni concetti alquanto discutibili sulla paternità delle vie che chiodi, e sulla
perdita dei diritti che avresti, in questo caso la falesia diventa pubblica e popolare al punto tale di
non poter nemmeno avere il ritorno del tuo materiale usato, allora si che la voglia è di schiodare
tutto. A mio avviso ai Tessari con queste schiodature si è voluto inviare un messaggio, estremo si,
ma che ha sviluppato una reazione immediata. In una situazione di deriva come questa ha preso
posizione subito il comune di Rivoli Veronese prendendo a cuore la questione e mettendosi a capo
di un progetto di outdoor che coinvolga anche l’arrampicata, costruendo le infrastrutture necessarie,
ma rispettando le normali regole di tutela del territorio (proprietà private, siti di interesse
naturalistici ambientali etc.). Vediamo ora se i trapani selvaggi si fermeranno! Sui chiodatori seriali
ma più in generali su questa categoria mi sono fatto un’idea e li divido in tre categorie, tralasciando i professionisti, che meritano un discorso a parte. Prendo come riferimento l’egocentrismo, un
termine psicologico, che si presta bene per la figura dell’alpinista in generale.
- Prima categoria: il falso altruista o egocentrico inconsapevole. È un chiodatore seriale, chioda
tutto quello che vede, non ha parametri, senso critico, non sa cosa sia la qualità. È spinto dalla
bramosia e dalla folla che dietro di lui lo acclama come benefattore. - Seconda categoria: L’egocentrico dichiarato. Non è detto che faccia solo porcherie, ma il suo ego
smisurato gli fa credere che tutto quello che fa è un valore aggiunto, riesce a riemnpire con le sue
vie gli unici corridoi rimasti liberi su pareti ormai sature e mitragliate da spits. Quello che non
capisce è che aggiungere vie è un disvalore per la parete tutta. Purtroppo di situazioni così se ne
vedono ormai un po’ dappertutto anche su pareti blasonate. - Terza categoria: il visionario. Ha un rapporto con il suo ego molto intimo essendo sempre alla
ricerca di qualcosa di nuovo, in continua esplorazione, non si accontenta e la sua irrequietezza lo
porta all’inseguimento dei suoi ideali: la parete vergine, la roccia perfetta etc. Ogni tanto riesce ad
individuare queste visioni e renderle realtà dando una spinta in avanti alla ricerca e all’arrampicata.
La sua via su quella parete sarà la prima ma la responsabilità è nelle sue mai, rimarrà tale o
diventerà un nuovo sito popolare affollato?
Mi confermi che per trovare roccia già chiodata e sempre deserta non bisogna andare troppo lontano in valle?
Si. In conclusione, il fenomeno Tessari, per fortuna concentrato in questa piccola area della val
d’Adige, destinata anche geologicamente, con le sue strutture facili e alla portata di molti, se da un
lato soddisfa una gran parte di arrampicatori, credo la maggior parte di chi visita la valle, dall’altra
rende libere e ancora tranquille molte falesie dislocate sul territorio, dove qualche mezz’oretta o
qualche mezzo grado in più fanno già la differenza e la selezione. È auspicabile invece che
fenomeni di overtourism in valle, provocati dall’apertura di nuovi itinerari banali e poco
interessanti, non vengano ripetuti magari allargando aree o disboscando settori di roccia. Il climber,
le guide, gli istruttori oggi possono pianificare le loro giornate e i loro corsi su un territorio vasto e
per tutte le esigenze impegnandosi un pochino di più.
Per finire ecco le domande che avevamo posto a Leorato a nome dei chiodatori Valdalpone:
- quando è iniziato il vostro lavoro come singoli e poi come associazione sulle pareti della bassa val d’Adige?
2. Come scegliete una linea e in cosa consiste il processo di apertura (dal basso? dalkl’alto?, dal basso con richiodatura a fix? ecc)
3) Come finanziate la vostra attività, ore di lavoro a parte?
4) A parte la schiodatura di mamma Li Turchi, che avete recentemente ripristinato, avevate ricevuto altri tipi di minacce/danneggiamenti in passato?
5) conoscete gli schiodatori? avete avuto modo di confrontarvi in qualche modo? pensate che sia possibile un dialogo trale varie instanze?
6) c’è un piano di sviluppo o di manutenzione per le vie dell’area? magari condiviso con le altre associaziioni di chiodatori tipo Laac?