Non è facile orientarsi nella giungla dei prezzi di un mercato ancora troppo frammentato e con poca tradizione come quello della scalata indoor. Chi ci capisce qualcosa è bravo, ma un allineamento per categorie non tarderà moltissimo, con la concorrenza.
Che la scalata indoor si stia differenziando sempre di più dall’attività parallela all’aria aperta su roccia naturale è sempre più evidente e, anno dopo anno, il divario si sta ampliando a tal punto che iniziano a sorgere i primi dubbi tra gli utenti: è davvero così utile scalare tra quattro mura in città per essere più efficaci nel weekend sulla roccia? Lasciamo aleggiare il dubbio e occupiamoci solo di una faccia della medaglia della diversità tra rocce e plastica: quella più storica è evidente. La roccia, giusto o non giusto che sia, è gratis mentre in palestra si paga. Ricordo ancora, quando alla fine degli anni 80 eravamo impegnati a mettere in piedi le prime sale o meglio salette indoor di arrampicata, pionieri nell’ignoto, e tra le varie difficoltà, enormi, che dovevamo affrontare non c’erano solo quelle economiche derivate da un investimento non da poco nella speranza di un risultato tutt’altro che garantito. C’erano anche quelle morali, certamente strane da definire e probabilmente in parte legate alla gelosia, ma è un dato di fatto che un’importante parte del mondo arrampicatorio non vedesse di buon occhio coloro che, da un giorno all’altro, intendevano far pagare un biglietto per poter accedere a una attività di arrampicata. indipendentemente dal fatto che queste stesse persone stessero rischiando i loro soldi per realizzare questo progetto. L’arrampicata doveva essere gratis di default.
Quindi, per la prima volta, nei lontani anni ’80 ci eravamo posti il problema di quanto potesse costare una sessione, una giornata di arrampicata. Non c’era uno skipass outdoor con cui confrontare il valore economico del tempo speso a scalare all’aperto o al coperto, non c’erano punti di riferimento se non quelli, parziali e poco coerenti, che venivano dal mondo del fitness o, come lo chiamavamo al tempo, al mondo del culturismo e dei pesi. Quindi le prime tariffe, veramente a spanne, sono state inventate sulla base di parametri di balsa. Ma erano a malapena gli anni novanta e l’euro non esisteva. Lo dico perché è stato importante, è stato un punto di svolta nel definire una volta per tutte un listino logico per la scalata a pagamento. Quando arrivò la botta dell’Euro, cioè la necessità di convertire da lire in euro il prezzo del biglietto per la scalata, i pochi gestori di sale dell’epoca fecero l’avveduta scelta di sostituire il simbolo della lira con quello dell’euro senza badare alle conversioni di valore. In questo modo 6.000 lire diventarono €6, quindi quasi il doppio sul mercato reale. Forse si può dire che è stato sull’ inflazione e sulla rivalutazione della moneta che la scalata indoor italiana ha fatto il suo primo grosso passo verso la modernità, fissando delle tariffe a ingresso (di conseguenza tutte le altre, dal mensile all’annuale), che ne consentissero la sopravvivenza e lo sviluppo delle sale.
Poi sono venuti gli anni 2000 e soprattutto 2010 Quando le sale hanno cominciato a diventare più diffuse anche nel nostro paese, mentre già nell’area mitteleuropea e francese ce n’erano un tot.
E sono stati gli anni in cui è venuto fuori il reale valore delle sale di arrampicata non solo dal punto di vista della frequentazione crescente delle persone, ma anche proprio dal punto di vista del valore reale da dare a un ticket giornaliero per la scalata. È stato subito chiaro a tutti che l’investimento per la creazione di una sala da arrampicata non poteva essere paragonabile a quello di una sala da fitness, magari basata su macchine di seconda mano. Nella scalata era tutto nuovo e tutto caro da montare in strutture quasi inesistenti sul mercato perché alte più di 10 metri e quindi con costi di costruzione e di permessi imparagonabili con quanto si trovava in giro a livello di fitness.
Costi diversi per strutture diverse?
Bulgaria e Francia sono le nazioni che negli anni si sono affermate come leaders nello specialissimo mercato delle prese e soprattutto delle strutture d’arrampicata. L’Italia, partita bene, si è presto persa per strada e al momento attuale la grande maggioranza delle commesse dei nuovi muri nel nostro paese sono aggiudicate a ditte d’oltre confine.
Questa circostanza ha reso un po’ più macchinosa la fase iniziale del processo di engineering e di preparazione in remoto dei muri, ma è un dato di fatto che nella maggior parte dei casi i ritardi nelle aperture sono stati generati da cause indipendenti dalla parte tecnica relativa alla scalata: le squadre bulgare arrivano presto, finiscono presto e lavorano a ritmi che lasciano l’acquolina in bocca agli imprenditori italiani. In più, questa “esterodipendenza” non ha nemmeno causato un processo inflattivo dei prezzi, anzi. Per tutto il corso della decade 2010 -20 i prezzi al metro quadro dei muri consegnati chiavi in mano si sono via via ridimensionati, rendendo più ragionevole aprire una sala nuova rispetto al decennio precedente. Ma ogni discorso a riguardo di un possibile parallelismo tra costi di costruzione e prezzo finale applicato ai clienti attraverso i listini, in Italia, è ben più complesso rispetto al facile riferimento che verrebbe spontaneo fare tra metri quadri arrampicabili di una sala al confronto di un altra.
Le dimensioni contano, d’accordo, ma non è tutto qui.
Nel nostro paese è estremamente difficile trovare un capannone industriale che ecceda i 9 metri di altezza o che sia più basso di 6: la dimensione più inutile che si possa immaginare per una sala d’arrampicata, perchè troppo bassi per la lead e troppo alti per il bouldering. E con le regole italiane non è che si possa soppalcare ad libitum, perchè le norme sulle SLU, le superfici calpestabili sono molto restrittive e limitanti rispetto, per esempio, alla Svizzera. Così come le norme relative alla sicurezza dei locali, all’impiantistica, all’accessibilità per i disabili.
Ricordo bene il nostro primo ingresso al Gaswerk di Zurigo, una ventina di anni fa, con due container da cantiere a far da spogliatoio e docce e soppalchi come se piovesse, situazioni impensabili in Italia. Così diverse strutture hanno dovuto scavare il pavimento per poter ottenere l’altezza necessaria per la lead, altre hanno dovuto costruire capannoni ex novo con l’altezza necessaria e con tutto l’aggravio di costi relativo alle norme antisismiche, tenendo conto che oltre i 16 metri di altezza le norme cambiano ancora, eccetera eccetera.
Tutto questo per dire che la parametrizzazione dei prezzi attuali dipende assai di più dalla “storia” economica e societaria di una struttura che dalle sue dimensioni reali di offerta verticale al pubblico. E anche dalle intenzioni di rientro dei soci dall’investimento iniziale. In Italia ci sono grosse strutture con una proprietà spezzettata in oltre 30 quote in cui gli stessi soci pagano gli ingressi come un cliente normale. E altre strutture che hanno una proprietà estremamente definita, magari persino di un solo investitore che ha aperto il centro più per sfizio che per investimento.
Ci sono settori commerciali dove la proprietà e i suoi comportamenti sono molto più tipizzati rispetto al climbing, probabilmente perché il tempo, i successi e i fallimenti, hanno selezionato i comportamenti e i modelli di mercato, mentre il climbing commerciale è ancora giovane e con le idee ancora troppo poco chiare.
La difficile comparazione dei prezzi
Comunque sia, questa fotografia infinitamente variegata di situazioni si ripercuote sui listini in un modo che, guardato con fredda obbiettività e isolando le simpatie per una community verticale piuttosto che per un’altra, risulta addirittura ridicolo, in alcuni casi. Il Crazy Center di Prato, famoso per le sue belle prese e l’ottima tracciatura, è tanto basso che al top dei boulder si rischia di picchiare la testa contro al soffitto. Malgrado questo, il suo listino presenta un abbonamento annuale identico (630€) a quello austriaco del Kletterzentrum di Innsbruck, il più grande centro d’Europa costato 11 milioni di euro.
Questo per far capire quanto la storia di un luogo conti più dei metri quadri di offerta verticale.
Oppure anche la storia di una città e/o della concorrenza che si è generata con l’apertura di nuove realtà a distanze brevi. Come nel caso di Torino, culla dell’arrampicata sportiva italiana e sede della Federazione per un ventennio, dove gli abbonamenti annuali delle sue (grosse) sale di boulder (come B-Side o Escape Garden) sono assestati intorno a 450 euro, cioè ben sotto la media nazionale delle sale di dimensioni simili.
Frequentare la LIDL anzichè l’Esselunga consente dei risparmi ben inferiori, fatte le dovute proporzioni, rispetto alle grosse discrepanze che invece si possono trovare per esempio nelle città emilane, dove i listini degli abbonamenti annuali possono non coincidere per importi anche molto importanti, tra i 100 e i 200€.
Come orientarsi? Conclusioni
Per quanto in espansione esponenziale, in un boom che non sembra rallentare nel periodo post covid, il climbing resta uno sport la cui impiantistica, per complessità, dimensione e costi, fatica a seguire la crescita del numero dei praticanti.
E’ verosimile prevedere un incremento nel medio periodo delle sale di bouldering, che richiedono meno investimento e meno condizioni speciali del palazzo ospitante, ma le possibilità di scelta entro mezz’ora di auto dalla propria abitazione resteranno limitate ancora a lungo e forse per sempre, se a un certo punto il boom si sgonfierà e la curva ascendente dei praticanti diventerà piatta.
In economia, poche possibilità di scelta significano poca concorrenza e quindi una certa libertà, da parte di chi decide i prezzi, di “imporre” la propria idea di listino, a prescindere dalla effettiva qualità, dimensioni e servizi offerti. Per l’utente significa mangiare la minestra presentata nel piatto oppure scalare su roccia (se disponibile) o in un bunker personale.
Torino e Milano, al momento, sembrano essere gli unici luoghi in cui, seppur in assenza di una cartellizzazione dei prezzi (il fenomeno opposto alla libera concorrenza, basata sull’accordo tra le sale “concorrenti” di praticare grossomodo gli stessi prezzi) i listini presentano similitudini coerenti con le dimensioni e i servizi offerti dalle varie sale.
Altrove è un bel far west di prezzi e di situazioni che potrebbe normalizzarsi solo se si assisterà ad una ulteriore esplosione del fenomeno climbing, causando nuove aperture e nuova concorrenz